di Roberto Copparoni
In questi ultimi 50 anni ho girato la Sardegna visitando i 377 comuni che la compongono. Da quanto ho avuto modo di appurare dagli incontri avuti con i residenti e dalle visite nei vari siti di interesse ambientale e culturale sono giunto a delle personali conclusioni che ho pensato di comunicare.
La Sardegna è troppo grande per essere un’isola e troppo piccola per essere un continente. Proprio come diceva la buon’anima di Marcello Serra nella sua opera intitolata “Sardegna quasi un continente” che vi consiglio di leggere. Tra l’altro questa pubblicazione sulla Sardegna, scritta da un sardo, è stata una delle più lette anche all’estero.
Io penso che questa sia una delle definizioni più adeguate e rispondenti alla verità.
Peraltro si deve segnalare che lo stato dell’arte in Sardegna è speculare rispetto ai residenti, la maggior parte dei quali sono impegnati a coltivare il proprio orticello, barcamenandosi fra mille difficoltà, senza considerare l’insieme delle cose e guardare oltre il contingente quotidiano.
Le politiche di programmazione sono spesso lettera morta in Sardegna e di Piani di rinascita, almeno come quelli pensati e realizzati negli anni passati, ne possiamo fare volentieri a meno. Infatti proprio questi piani hanno determinato lo snaturamento della nostra cultura ritenendo che il progresso e il benessere fosse indissolubilmente legato alla industrializzazione e alla petrolchimica. Il benessere era la modernità e il consumo. Lo smantellamento della Sardegna è stato concepito a tavolino, avvallato da buona parte del servizio informativo pubblico, sulle ali di una modernità che ha creato più danni che benefici.
I danni che sono stati creati allora, parlo degli anni che vanno dalla metà del 1950 a tutto il 1980, solo in tempi a noi recenti stanno evidenziando la loro devastante portata come danni trasversali e irreversibili di cui ancora poco di parla. Ma forse si preferisce solo non parlarne,
Certo oggi tutti abbiamo degli scampoli di benessere e di tecnologia ma non sappiamo parlare il sardo, senza cellulare siamo disperati, abbiamo dimenticato la nostra cultura e non conosciamo la nostra storia, relegandola a sporadici momenti folclorici calendarizzati dalla liturgia consumistica, di cui si sono smarriti il senso e i contenuti o innescando delle feroci discussioni e polemiche pseudo storiche e culturali dietro una tastiera all’interno di qualche gruppo social.
Insomma stiamo assistendo a una capillare spersonalizzazione del nostro popolo in favore di una globalizzazione di consumi e di ulteriori oneri più che di opportunità.
Con questo non voglio dire che si debba ritornare al passato ma almeno farne tesoro.
Siccome siamo positivi vogliamo credere e pensare che i sardi si stiano accorgendo della situazione e che stiano aspettando solo un valida occasione per rinascere. Ma la rinascita non nasce dagli altri ma da noi stessi. Dobbiamo essere tutti noi a vivere il cambiamento che vogliamo attuare e non delegare o rimandare a….domani. Tutti noi a tale proposito abbiamo delle precise responsabilità e nulla giova dire: “Ma cosa posso fare io da solo?”.
Questa domanda serve solo a tacitare la nostra coscienza perché tende a giustificare la nostra incapacità di voler realmente cambiare le cose.
Dobbiamo avere la forza di porre in essere semplici azioni quotidiane in grado di favorire lo studio e la conoscenza delle bellezze, la positività delle tante risorse presenti e individuare e adottare con il tempo delle semplici azioni di recupero e di valorizzazione e della messa in rete di risorse, competenze, conoscenze e capacità che i sardi possiedono, ma che hanno come dimenticato.
Per fare questo dobbiamo predisporre una scala di priorità ponendo la salute e il benessere in primo piano. Benessere inteso come sommatoria di valori e elementi socio economici che trae linfa dal proprio contesto territoriale.
“Conoscere per essere” era il nome di un mio progetto annuale finanziato dalla Regione Sardegna Assessorato della Pubblica Istruzione e delle politiche giovanili che, nonostante abbia avuto un ottimo successo, non è stato più sostenuto dalla Regione.
In questo titolo credo ci sia la chiave di volta del mio intervento.
Infatti, a mio avviso, non esiste Comune della Sardegna che non abbia risorse naturali, ambientali, storiche e archeologiche tali da negare la possibilità di sviluppare progetti di economia civile sociale volti al recupero di aree e edifici dismessi, degradati o abbandonati; a creare imprese sociali che portino avanti i principi della inclusione e della generatività.
I tanti piccoli paesi di cui la Sardegna è ricca e che sono a rischio di estinzione possono sviluppare accordi e protocolli di collaborazione funzionali con altri attori del territorio tesi alla rivitalizzazione di questi centri favorendo l’innovazione, la creatività, la cogestione e una reale sussidiarietà.
In tale modo si potranno creare anche le condizioni per superare la stagionalità e il campanilismo, favorire l’osmosi fra zone costiere e zone interne e creare le condizioni per un ritorno alla salvaguardia degli assi portanti della nostra economia e della nostra storia che sono: la pastorizia, l’allevamento, l’agricoltura, la pesca, l’artigianato, il piccolo commercio e le tante produzioni tipiche diffuse in tanti settori e in tutto il territorio della Sardegna.
Assi portanti integrati da tutta una serie di capillari servizi che vanno dalla accoglienza all’ospitalità, dai collegamenti da e per la Sardegna ai trasporti interni senza trascurare l’importante apporto che possono dare tutte le Associazioni e le società culturali e tutte le organizzazioni della società civile che sono diffuse in ogni luogo e che attendono solo di essere realmente coinvolte nei processi e programmi di animazione dei rispettivi territori di appartenenza, non come controparti di un progetto da attori dello stesso.
Utopie?
No, per me sono solo delle semplici verità con le quali dobbiamo confrontarci.
Un altro problema è la politica e la miope visione che hanno buona parte dei nostri amministratori. Miopia che non si riferisce solo agli amministratori locali ma anche agli amministratori di enti governativi e di enti privati.
A questo proposito può essere di aiuto la U.E. che finanzia annualmente migliaia di progetti in tutti i Paesi aderenti che ben volentieri sosterrebbe la Sardegna se arrivassero dei validi progetti.
In Sardegna ci sono tanti bravi progettisti perché la Regione non li coinvolge nella realizzazione di progetti di questa natura o non li manda in giro per la Sardegna a promuovere queste opportunità?
In tutto questo hanno un ruolo fondamentale le scuole di ogni ordine e grado che, anche grazie all’autonomia di cui dispongono, dovrebbero attivarsi in questa direzione, promuovendo percorsi di PCTO (ex Alternanza scuola lavoro) e di reale collegamento con tutti gli attori e i territori di loro riferimento e facendo diventare gli Istituti scolastici centri di formazione e animazione permanente territoriale operative dalle 12 alle 16 ore su 24 ore quotidiane. In questo modo ben si coniugherebbe l’istruzione alla cultura e alla occupazione nonché al contesto del territorio di riferimento ricco di saperi, risorse, beni materiali e immateriali, spesso sconosciuti o ignorati ma che sono una risorsa in se.
Proprio come potremmo esserlo tutti e ciascuno di noi. Basta volerlo.